mercoledì 9 aprile 2014

FIDARSI E' BENE! Come la mancanza di fiducia minaccia le nostre relazioni.

La fiducia è il fondamento di tutte le relazioni umane, dagli incontri casuali alle amicizie, alle relazioni intime. Essa determina tutte le interazioni che abbiamo con gli altri. Nessuno riuscirebbe a guidare una macchina, a camminare lungo un marciapiede, a salire su di un treno o su un aereo, se non potesse, in qualche modo, fidarsi degli altri. Confidiamo nel fatto che gli altri guidatori rimarranno nelle loro corsie, che i conduttori ed i piloti saranno sobri e vigili. E confidiamo nella probabilità che chi ci circonda, faccia del proprio meglio per adempiere i propri obblighi verso il prossimo. In questa prospettiva si puó dire che l'intera nostra cultura, civiltà, e comunità dipendano dalla fiducia. Tante persone hanno difficoltà a fidarsi: si pensi anche solo alla gelosia, spesso immotivata o alla sospettosità eccessiva. Per certe persone, i vantaggi della vicinanza e dell'intimità sono offuscati dalla possibilità di essere traditi e provare sofferenza. La capacità di fidarsi, infatti, non è presente in eguale misura nelle persone: alcuni sono in grado di provare fiducia più facilmente di altri. Le valutazioni iniziali sulla possibilita di fidarci degli altri, avvengono automaticamente, al di fuori della nostra coscienza, e sulla base della nostra storia evolutiva. Anche nel contesto delle relazioni intime, le nostre risposte ed i nostri comportamenti sono il risultato di "modelli operativi interni" che non percepiamo consapevolmente, ma che ci guidano sulla base di tendenze comportamentali innate. La natura dell'attaccamento ai nostri "caregivers" nell'infanzia (di solito i genitori) determina quanto saremo "fiduciosi" da adulti, perché queste prime interazioni forniscono la traccia, lo schema, di come interpretiamo il mondo ed attraverso il quale determiniamo cosa aspettarci dalle persone. Un bambino che, nelle sue prime esperienze relazionali, abbia imparato che le persone che lo circondano sono affidabili e si prenderanno cura di lui in caso di necessità, si muoverà nel mondo con rappresentazioni mentali ed aspettative circa le relazioni molto diverse rispetto ad un bambino con un attaccamento cosiddetto "insicuro". Lo schema di attaccamento "sicuro", ha tre caratteristiche fondamentali: - Il presupposto che, se si ha bisogno di aiuto, sia possibile rivolgersi ad una persona di fiducia. - Il presupposto che, se si ha bisogno di supporto, gli altri saranno pronti e disponibili a fornircelo. - L'aspettativa che il supporto ricevuto ci darà aiuto, consolazione e sollievo. Queste assunzioni fanno si che si rinforzino la capacità di provare fiducia e l'attitudine a contare sugli altri. Al contrario, l'ansia presente nelle aspettative dei bambini esposti ad una madre o ad un caregiver che sia stato incoerente (certe volte fonte di conforto ma, altre volte, assente o esplicitamente respingente) è strettamente legata a preoccupazioni, in età adulta, relative all'incertezza che il loro partner sarà disponibile in un momento di bisogno. Non si fideranno del fatto che l'altro sarà presente, e saranno preoccupati dall'ipotesi di dovervi fare affidamento. Le persone con questo genere di aspettative, o che siano state trascurate, respinte o addirittura abusate, hanno la credenza di non potersi basare sull'aiuto di nessuno, e faranno ció che potranno per restare autonome. È importante avere chiaro che queste rappresentazioni mentali non sono funzioni coscienti. La presenza di fiducia o la sua assenza, non viene determinata attraverso processi di pensiero consci, ma viene elaborata secondo un copione mentale, che non sappiamo neanche di seguire, a meno che non abbiamo fatto una psicoterapia o siamo giunti ad una profonda comprensione di come le nostre esperienze infantili ci hanno segnati. Una serie di esperimenti (Harriet S. Waters e Everett Waters) sono stati sorprendentemente chiari nelle loro conclusioni su come questi "script" o rappresentazioni mentali lavorino. Ai partecipanti è stata data una lista di parole come traccia ed è stato chiesto loro di scrivere una storia usando tali parole. Un set di campioni di parole era relativo alla mattina tipo di un bambino: mamma, bambino, gioco, coperta, abbraccio, sorriso, storia, finta, orsacchiotto, ha perso, ha trovato, e schiacciare un pisolino. I soggetti con attaccamento "sicuro" raccontatavano storie, in genere, piene di interazioni madre-bambino, in cui il bambino era descritto come felice e soddisfatto. Erano presenti abbracci e sorrisi, l'orsacchiotto, momentaneamente perso, veniva poi ritrovato. Non è stata la stessa cosa per i soggetti con attaccamento "insicuro", che tendevano a descrivere una madre nervosa, che si distrae e perde l'orsacchiotto, o che guarda il bambino giocare con la sua coperta da solo nella culla e decide di raccontargli una storia, ma cambia idea ed il bambino si addormenta da solo. In questo ultimo racconto, le parole "abbraccio" e "sorriso" non sono state mai utilizzate dai partecipanti. Gli esperimenti utilizzavano anche domande relative ad adulti in situazioni critiche, come ad esempio, un incidente d'auto, ed anche in tal caso, è risultato che le narrazioni fossero coerenti, come nell'esperimento precedente, allo stile di attaccamento, sicuro o meno. In conclusione le persone con attaccamento sicuro sono più sensibili ed in grado di individuare comportamenti di cura e sono più precisi nelle percezioni dei loro partner; sono anche più veloci nel comprendere e perdonare quando qualcuno li delude in qualche modo. Poiché le nostre rappresentazioni mentali sono automatiche e non coscienti, possiamo combattere il loro effetto sul modo in cui interpretiamo gli eventi e le azioni altrui portandole ad uno stato di consapevolezza. Se si hanno difficoltà nel fidarsi delle persone, può essere utile mettere a fuoco ciò che si sta mettendo in gioco ed agendo nella relazione. Stiamo interpretando le parole ed i comportamenti del partner correttamente, o tendiamo a fraintendere i segnali ed i comportamenti che indicano la sua disponibilità? Stiamo rispondendo al copione del nostro modello di attaccamento interiorizzato, secondo le nostre aspettative, o a ciò che sta realmente succedendo nell'interazione attuale? È il nostro schema abituale a non permetterci di fidarci, o la persona che abbiamo scelto di frequentare? L'altro è prevedibile? Possiamo contare su di lui/lei? E, se non è possibile, perché? È comprensibile che le persone che hanno sperimentato in prima persona, la delusione ed il dolore di un tradimento, possano fare fatica a fidarsi. Ma essere ancora aperti alla possibilità di fidarsi, sarebbe più facile se i nostri schemi interattivi dell'infanzia fossero "smascherati", resi visibili e comprensibili, ed infine abbandonati.

giovedì 3 aprile 2014

PICCOLE CATASTROFI QUOTIDIANE. IL PESO DEI TRAUMI INFANTILI NELLO SVILUPPO DELLO STRESS PSICOLOGICO
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Nel senso comune, quando si parla di trauma, o di esperienza scioccante, si fa implicitamente riferimento a qualche evento la cui straordinarietà sia condivisibile per chiunque. Si pensa a grandi incidenti o catastrofi naturali, a condizioni estreme e fuori del comune: situazioni in cui la nostra sopravvivenza è minacciata. Questa accezione rischia però di togliere “dignità”, o a considerare trascurabile il potere traumatizzante di eventi relazionali apparentemente routinari, come esperienze di trascuratezza o mancanza di rispetto e accudimento, che influiscono sul senso di valore dell’individuo, sulla sua sicurezza, sull’autostima e sul suo senso di efficacia personale. Per alcuni può essere stato traumatico essere umiliati alle elementari da un maestro troppo duro, per altri essere mollati, improvvisamente, dal proprio partner, per molti può essere traumatica la perdita del lavoro, oppure un divorzio o la perdita di una persona cara, ma anche un giudizio ricevuto. Il fatto che l’impatto delle esperienze relazionali negative sia soggettivo, rende necessario definire trauma psicologico qualsiasi evento che una persona recepisca come estremamente stressante. Piccoli e grandi traumi psicologici, vissuti soprattutto in età infantile, hanno un impatto significativo sull’emergere dello stress psicologico e sullo sviluppo di vari disturbi mentali. Anche aspetti caratteriali, come la timidezza o la tendenza al senso di colpa, possono essere la conseguenza di episodi interpersonali, come rifiuti, umiliazioni, colpevolizzazioni, tanto più gravi quanto più ripetuti. Nei primissimi anni di vita, cominciamo ad organizzare ed ordinare le informazioni che provengono dal mondo esterno e dalle realazioni secondo schemi. Lo schema è una struttura cognitiva che svolge diverse funzioni: seleziona le informazioni da cercare, prevede ed interpreta le informazioni arrivate, le integra con le altre conoscenze già acquisite e ne estrae il significato astratto. Questo processo di apprendimento (raccolta, memorizzazione ed ordinamento delle informazioni), si struttura in reti neurali comunicanti tra loro. L'esempio del computer puó rendere metaforicamente l'idea: ogni nuovo dato inserito dall'esterno, o scaricato da internet, deve essere organizzato e salvato in una cartella contenente dati attinenti. Per esempio le foto delle vacanze saranno recuperabili da una stessa cartella, magari suddivisa a sua volta in altri file, ed allo stesso modo sará per i documenti word, le mail contenenti bollette e cosí via. Se non fosse possibile ordinare i nostri file, ed eliminare quelli superflui, ci troveremo di fronte ad un desktop caotico, dal quale sarebbe difficile e laborioso recuperare ció che cerchiamo. Quando ci arriva una "nuova informazione" da un'interazione ben riuscita (per esempio un colloquio di lavoro andato a buon fine), integriamo il nuovo dato "sono competente" nella rete neurale dell' "idea su di me", gia contenente dati precedentemente ricavati. Quando siamo esposti ad interazioni che suscitano emozioni negative, o disturbanti, il processo viene reso difficoltoso dalla reazione neuroendocrina. Pensiamo a quando stiamo dando un esame: la paura relativa alla prestazione, il pensiero di tutto ció che ne puó seguire, ci rendono "tesi", e tale tensione si puó tradurre in mani sudate, secchezza delle fauci, arrossamenti in viso, tachicardia ed altre reazioni fisiche. Gli eventi stressanti producono reazioni emotive e corporee importanti, che non sempre il cervello riesce ad elaborare. Quando l’elaborazione delle nuove informazioni non avviene spontaneamente, le emozioni e le sensazioni corporee si bloccano, e costruiscono reti neuronali disfunzionali che compromettono il normale funzionamento psichico ed il benessere della persona. Le conseguenze che si possono presentare in seguito ad un’esperienza traumatica variano a seconda della peso soggettivo che l’evento ha per chi lo ha subito. La risposta all’esperienza traumatica è, prima di tutto, emotivo-corporea. Nel caso di un trauma psicologico irrisolto si crea nel cervello una stasi neurobiologica, che impedisce l’elaborazione delle emozioni e delle sensazioni corporee le quali, permanendo nel cervello oltre la conclusione dell’esperienza, sono pronte a riattivarsi in situazioni simili a quella traumatica. Per tornare alla nostra metafora, é come se l'attivazione emotiva e corporea corrispondesse ad un virus che si inserisce nel nostro computer, danneggiandone il contenuto ed intaccando le normali attivitá. Anche se la persona si trova in condizioni di sicurezza può accadere, infatti, che essa sperimenti le stesse emozioni e sensazioni sgradevoli che aveva provato nel momento in cui è avvenuto il trauma. Per esempio, chi ha avuto un incidente d’auto può continuare a sentirsi a disagio e teso in macchina, anche se consapevole che, da anni, guida senza problemi. Un trauma psicologico irrisolto, infatti, costituisce un carico disfunzionale nel cervello di una persona, la rende più fragile rispetto all’impatto con altre possibili successive difficoltà della vita e ne diminuisce la resilienza. Per questo diciamo che un trauma irrisolto tende a “complessizzarsi”, dando vita a modalità di relazione disfunzionali con se stessi, con gli altri e con la realtà esterna, che possono diventare la base di sintomatologie diverse. Ripetute esperienze di rimprovero, di umiliazione, di rifiuto, possono a loro volta organizzarsi in strutture neurali che influenzano le esperienze future del soggetto, proprio come il nostro computer memorizza le ricerche su internet precedenti, e ci suggerisce le "navigazioni" future sulla base delle nostre abitudini! Allo stesso modo, se avremo collezionato un tot di esperienze "valgo poco", "non sono adeguato", "gli altri mi abbandoneranno", etc., che non siano state adeguatamente integrate, ci troveremo ad agire profondamente influenzati da aspettative disfunzionali ed andremo incontro a blocchi, difficolta, emozioni negative croniche, malessere psicologico, sintomi somatci. Nei casi piu gravi, questo puó portare a conseguenze che rendono estremamente vulnerabili, proprio come testimoniano, sempre piú, i tristi e preoccupanti dati di cronaca.

sabato 1 dicembre 2012

DEFINIZIONE TRANSDIAGNOSTICA DEI DISTURBI ALIMENTARI

LA PRESENZA SEMPRE MAGGIORE (>50% DEL TOTALE) DI DISTURBI ALIMENTARI CON DIFFERENTI CARATTERISTICHE CLINICHE E COMPORTAMENTALI RISPETTO AD ANORESSIA NERVOSA, BULIMIA NERVOSA E DISTURBO DELL'ALIMENTAZIONE NON ALTRIMENTI SPECIFICATO, RENDE NECESSARIA LA DEFINIZIONE DI CRITERI DIAGNOSTICI APPLICABILI INDISTINTAMENTE A TUTTI I DISTURBI ALIMENTARI. LA PSICOTERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE PROPONE UNA DEFINIZIONE CLINICA DEI DA CHE STA ALLA BASE TEORICA DELLA TECNICA DI CURA PIU' EFFICACE IN ASSOLUTO NEL TRATTAMENTO DI TALI DISTURBI. DEFINIZIONE TRANSDIAGNOSTICA: 1. ECCESSIVA VALUTAZIONE DELL’ALIMENTAZIONE, PESO, FORMA DEL CORPO E LORO CONTROLLO. 2. PRESENZA DI ALMENO UNA DELLE SEGUENTI CARATTERISTICHE: - COMPORTAMENTI ESTREMI DI CONTROLLO DEL PESO (ES. DIETA FERREA, VOMITO AUTOINDOTTO, USO IMPROPRIO DI LASSATIVI7DIURETICI, ESERCIZIO FISICO COMPULSIVO ED ECCESSIVO); - EPISODI BULIMICI RICORRENTI; - MANTENIMENTO ATTIVO DI BASSO PESO (IMC<17,5 Kg/m2. 3. IL DISTURBO DEVE CAUSARE DANNI SIGNIFICATIVI IN ALMENO UNA DELLE SEGUENTI AREE: - SALUTE FISICA; - FUNZIONAMENTO PSICOLOGICO; - RELAZIONI INTERPERSONALI; - ATTIVITA’ SCOLASTICA O LAVORATIVA.

DISTURBI DELL'ALIMENTAZIONE: CRITERI DIAGNOSTICI PER ANORESSIA E BULIMIA NERVOSA (DSM-IVR)

CRITERI DIAGNOSTICI PER ANORESSIA NERVOSA A. Rifiuto di mantenere il loro peso corporeo al di sopra o al peso minimo normale per l’età e la statura (per esempio perdita di peso che porta a mantenere il peso corporeo al di sotto del 85% rispetto a quanto previsto, oppure incapacità di raggiungere il peso previsto durante il periodo della crescita in altezza, con la conseguenza che il peso rimane al di sotto del 85% rispetto a quanto previsto). B. Intensa paura di acquistare peso o di diventare grassi, anche quando si è sottopeso. C. L’alterazione del modo in cui il soggetto vive il peso o la forma del corpo, o eccessiva influenza del peso e della forma del corpo sui livelli di autostima, o rifiuto di ammettere la gravità della attuale condizione di sottopeso. D. Nelle femmine dopo il menarca, amenorrea, cioè assenza di almeno tre cicli mestruali consecutivi. (una donna viene considerata amenorroica se i suoi cicli si manifestano solo a seguito di somministrazione di ormoni, per esempio estrogeni) Specificare il sottotipo: Con Restrizioni: nell’episodio attuale di Anoressia Nervosa il soggetto non ha presentato regolarmente abbuffate o condotte di eliminazione (per esempio vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi). Con Abbuffate/Condotte di Eliminazione: nell’episodio attuale di Anoressia Nervosa il soggetto ha presentato regolarmente abbuffate e o condotte di eliminazione (per esempio vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi). CRITERI DIAGNOSTICI PER BULIMIA NERVOSA Per fare diagnosi di Bulimia Nervosa (BN), il DSM IV TR richiede che siano presenti tutti e 5 i seguenti criteri diagnostici: A. Ricorrenti abbuffate. Un’abbuffata è caratterizzata da entrambi i seguenti elementi:
 1) mangiare in un definito periodo di tempo (ad es, un periodo di due ore), una quantità di cibo significativamente maggiore di quello che la maggior parte delle persone mangerebbero nello stesso tempo ed in circostanze simili; 2) sensazione di perdere il controllo durante l'episodio (ad es., sensazione di non riuscire a smettere di mangiare o a controllare cosa e quanto si sta mangiando). B. Ricorrenti ed inappropriate condotte compensatorie per prevenire l'aumento di peso, come vomito autoindotto, abuso di lassativì, di diuretici, di enteroclismi o di altri farmaci, digiuno o esercizio fisico eccessivo. C. Le abbuffate e le condotte compensatorie si verificano entrambe in media almeno due volte alla settimana, per tre mesi. D. I livelli di autostima sono indebitamente influenzati dalla forma e dal peso corporei. E. L'alterazione non si manifesta esclusivamente nel corso di episodi di Anoressia Nervosa (AN). Specificare il sottotipo: 
 Con Condotte di Eliminazione: nell'episodio attuale di Bulimia Nervosa (BN) il soggetto ha presentato regolarmente vomito autoindotto o uso inappropriato dì lassativi, di diuretici o di enteroclismi. Senza Condotte di Eliminazione: nell'episodio attuale il soggetto ha utilizzato regolarmente altri comportamenti compensatori inappropriati, quali il digiuno o l'esercizio fisico eccessivo, ma non si dedica regolarmente al vomito auto-indotto o all'uso inappropriato di lassativi, di diuretici o di enteroclismi.

domenica 4 novembre 2012

AMORE, MIO CARNEFICE! La Violenza Psicologica nella Coppia. di Camilla Cristina Scalco, Psicologa Psicoterapeuta


Nella totalità delle relazioni di coppia vi sono momenti di incomprensione, discussioni o litigi. Saper superare tali episodi è indice di bontà della relazione, nonché momento di crescita congiunta ed aumento della coesione tra i partner. 
Esistono però moltissime relazioni sentimentali in cui le incomprensioni, le frustrazioni e la sofferenza diventano la regola.
Con sempre maggiore frequenza mi capita di seguire pazienti intrappolati in relazioni patologiche, che generano sofferenza psicologica, emotiva e somatica. In tali relazioni, i cicli comunicativi che uno dei partner provoca, sono profondamente lesivi per la persona sottomessa, per cui si deve parlare di vera e propria violenza psicologica. 
Rispetto ad altre forme di violenza, più evidenti, più esplicite e quindi riconoscibili, come la violenza fisica, o quella sessuale, la violenza psicologica si insinua, nella persona che la subisce, in modo subdolo e pervasivo, tanto da condurre la vittima a non riconoscersi più, a perdere il contatto con se stessa, a non riuscire più ad esprimersi e a pensare spontaneamente.  

La persona si sente svuotata, sola, perde completamente la progettualità, si spegne, e si sente in qualche modo responsabile di ciò che le sta accadendo. Tende ad isolarsi, a non parlarne con nessuno, per mantenere una sorta di "rispettabilità" della propria coppia, o nucleo famigliare, per diverse ragioni. Lo fa perché molto spesso la reazione degli altri è, nella migliore delle ipotesi,  colpevolizzante (es."Avresti dovuto capirlo prima!"), quando non, addirittura, di incredulità, di dubbio, poiché i meccanismi comunicativi messi in atto dal partner dominante sono molto difficili da individuare e spiegare a chi non vi assiste direttamente. Queste caratteristiche imprigionano la vittima poichè, agendo direttamente sulla sua capacità critica ed attaccando pesantemente la sua spontaneità di espressione e di pensiero, la legano alla credenza che, accettando, e provando ad "andare incontro" al partner, questi potrà cambiare. 

Un passo utile a riconoscere la patologia,  e l'inaccettabilità, di una relazione di questo genere, è quello di osservare molto attentamente il proprio carnefice. 
Solitamente il partner dominatore è una persona solitaria, anche quando possa risultare adeguato socialmente o brillante in compagnia. L'aspetto enigmatico, riservato, poco espressivo, freddo e severo celano una anafettività di base, dovuta all'assenza degli strumenti psichici fondamentali per entrare in relazione con qualcuno. 
L'Io è fragilissimo, iperprotetto da una corazza impenetrabile, e qualsiasi tipo di relazione intima costituisce una minaccia insopportabile di rifiuto, abbandono, disintegrazione e distruzione del Sè. 
Tutti, per natura, temiamo la perdita delle relazioni affettive importanti, poiché tale perdita costituisce una ferita alla nostra amabilità personale, al nostro valore, all'autostima. Per i cosiddetti "carnefici", tali minacce, sono qualcosa di più drammatico poiché l'autostima, in loro, è talmente bassa da costringerli a proteggere la fantasia di un Io ipertrofico, onnipotente, grandioso, che non può amare, ma può solo dominare, controllare e sottomettere totalmente il partner. Per questo sono attenti a conquistare la loro "preda" e ad uscire allo scoperto, con comportamenti violenti, soltanto dopo essersi assicurati la tenuta della relazione (con l'aggancio patologico ai sentimenti della vittima, con la nascita di un figlio, con il matrimonio, con la subordinazione economica e con l'isolamento sociale ed affettivo dell'altro). 

Al contrario di quanto si possa pensare, molto sovente, la vittima prescelta è una persona forte, socialmente affermata, con una vita emotiva ricca. Questa viene lusingata da comportamenti, come gelosia ed esclusività, che vengono confusi con prove di un amore speciale. 

Uno degli aspetti che maggiormente disorienta chi è coinvolto in relazioni affettive con questo tipo di partner è il dubbio su come possa, una persona che dice di amare, essere così freddamente spietata. Ci si chiede se certi comportamenti possano essere calcolati in modo tanto machiavellico e sottile. 
Certamente si è al cospetto di personalità estremamente intelligenti, spesso con QI superiore alla media, che non sono consapevoli del dolore che provocano, poiché incapaci di provare alcun sentimento. La condizione di coppia attiva in loro, come un'automatismo difensivo, l'esercizio dei più svariati soprusi, con la convinzione di essere nella ragione. 
Sono proprio l'incapacità di provare empatia, pena, di immedesimarsi nel dolore dell'altro i tratti distintivi del carnefice  (perlopiù Personalità Paranoidee, Narcisistiche, Psicopatiche).

L'inconsapevolezza è indice di prognosi negativa rispetto a qualsiasi cambiamento, ed è allo stesso tempo fattore di mantenimento della relazione poiché  costituisce spesso, ciò che la vittima scambia per (o sceglie consapevolmente di interpretare come) alibi. 
l sentimento che il carnefice prova è autentico, e l'oggetto di amore gli diventa vitale. Proprio perché non può farne a meno, vive l'altro come una minaccia talmente pericolosa da dover controllare ed annullare.  Non ne sopporta le caratteristiche che lo avevano attratto all'inizio: l'autonomia e l'indipendenza, poiché le vive come un tradimento della loro simbiosi. 
Per verificarne l'affidabilità, inizia a sottoporre il partner a dei test insostenibili, che gli confermino la sua convinzione di base: l'amore non esiste. 
Nutre il proprio vuoto strutturale succhiando l'energia vitale della preda denigrandola, sminuendola, criticandola, umiliandola, torturandola psicologicamente, senza provare compassione [Di Battista, D.; 2012].


Le modalità perverse di comunicazione interpersonale che i carnefici attuano nella coppia sono sostenute, come sopra scritto, da un elevato livello cognitivo, caratterizzato da fredda razionalità. 
Il carnefice non si mette mai in discussione poiché riconoscere la propria responsabilità significherebbe "perdere potere" nei confronti dell'altro, che viene vissuto costantemente sul piano della sfida. 
Usa, nei casi di confronto, una modalità comunicativa confusa e confondente: dice e nega la stessa cosa, non è mai diretto, non ha spiegazioni sensate alle proprie affermazioni, oppure usa strategie dialettiche assolute, che rendono, qualsiasi risposta, un errore. 
Il carnefice tiene in scacco la sua vittima proprio evitando il raggiungimento di una soluzione ai conflitti:  si rifiuterà sempre di negoziare, non ascoltando e non rispondendo alle domande dell'altro. 
Questo fa impazzire l'interlocutore che, destabilizzato, ed allibito dalla paradossalità dei messaggi del partner, inizierà a dubitare di ciò che prova. 
 Tale strategia comunicativa propone il cosiddetto "messaggio paradossale" o "doppio legame" [Bateson, G.; 1956] (modalità comunicative che nel bambino possono provocare gravi disturbi psicologici e psichiatrici): afferma un contenuto a livello verbale ed esprime l'opposto a livello non verbale, negandone il contenuto. Il partner ne esce destabilizzato, confuso ed il carnefice ha raggiunto il suo scopo: il pieno controllo delle emozioni e dei comportamenti dell'altro. Confondere, scioccare l'interlocutore, gli impedisce di pensare, di comprendere.
Questo aspetto della comunicazione con il carnefice fa si che, nei casi più gravi nei quali il legame è molto difficile da sciogliere, la vittima operi una vera e propria dissociazione interna: "Non può essere davvero così crudele, o così folle… Se no, dovrei lasciarlo! In fondo mi ama… Se sopporto poi si tranquillizza e torna ad essere amorevole… Ma non posso, non riesco a lasciarlo! Forse ha ragione, sono io che lo provoco, sono io  quella sbagliata…".

Proprio per le difficoltà di riconoscimento della violenza psicologica, sia dall'esterno della relazione, da parte di famigliari ed amici, sia da parte di chi ne subisce gli effetti, è essenziale che il partner sofferente vinca la vergogna e la paura e si riconosca il diritto di essere protetto ed aiutato. Deve riconoscere a se stesso la debolezza che la tossicità di tale relazione gli ha provocato, che ciò che subisce è sbagliato, ed è perseguibile. 
Deve abbandonare la speranza di cambiamento, ed il desiderio di vendetta. Deve provare a prendersi cura di se stesso almeno in una minima percentuale rispetto a quanto abbia fatto con il proprio carnefice. Deve elaborare il lutto per la perdita di un'amore mai esistito. Deve nutrirsi di persone che gli vogliono bene, deve raccontare la propria esperienza. Parlare. Ad alta voce, per sentire il riconoscimento, da parte di chi sa ascoltare, della propria persona.